Dopo un lungo dibattito senza costrutto, in pochi giorni, e sull’onda di una pressione che non trovava base nel contesto finanziario quanto in quello politico, è stata proposta la modifica quantitativa (e marginalmente qualitativa) della disciplina della tassazione delle rendite finanziarie...
Dopo un lungo dibattito senza costrutto, in pochi giorni, e sull’onda di una pressione che non trovava base nel contesto finanziario quanto in quello politico, è stata proposta la modifica quantitativa (e marginalmente qualitativa) della disciplina della tassazione delle rendite finanziarie in vigore dal 1° settembre 1998. Solo per la storia e per oggettivo riscontro, tale riforma fu attuata da un governo nel 1997, non modificata dal successivo diverso nel 2001, ipotizzata nella struttura attuale da un governo simile al primo nel 2007 e poi riproposta oggi appunto da un governo omologo al secondo.
Altrettanto utile una considerazione di filosofia della politica fiscale: come tassare il risparmio? Come gli altri redditi e quindi secondo lo schema progressivo, oppure separatamente, considerando che chi risparmia lo fa in base ad un reddito che è già stato tassato in modo equo? La seconda scelta favorisce chi vive di rendita finanziaria (e in prospettiva anche immobiliare) e stimola taluni ad abbandonare attività d’impresa per spostarsi su patrimoni finanziari (meno rischio e meno imposte). Il cumulo, invece, espone alla riduzione del saggio di risparmio a vantaggio del consumo e determina una ricchezza complessiva a medio termine inferiore.
La seconda valutazione è invece più tecnica e coglie due gravi disarmonie della struttura proposta della fiscalità finanziaria. La prima concerne la tassazione privilegiata dei titoli di Stato che rimane al 12,5% con un vantaggio del 37,5% rispetto a quella di bond e azioni emessi da altri soggetti. La seconda, già in vigore, riguarda i fondi previdenziali che rimangono gli unici tassati sul maturato e non sul realizzato generando un danno nel breve termine a fronte di un beneficio nel lunghissimo termine (la esenzione pro-quota di una parte della rendita previdenziale finale). Questo stato deriva dall’entrata in vigore il 1° luglio 2011 della modifica sul trattamento fiscale degli OICR.
Nel complesso delle scelte del risparmiatore (e quindi di chi lo consiglia) è forse opportuno ricordare la parallela entrata in vigore della cedolare sugli affitti, mentre è ancora da definire la soluzione finale della proposta di riforma complessiva della tassazione dei redditi con minori aliquote e ridefinizione del modello di esenzioni e detrazioni. Emerge quindi una nuova considerazione “filosofica”, questa volta di più ampio raggio: la fiscalità è il grande “driver” nelle scelte di investimento, un guidatore che impone soluzioni continuamente modificate alle quali il risparmiatore (versione low profile dell’investitore) si adatta con un atteggiamento che già 25 anni fa definii di “transumanza”. Dissertando di consulenza è ovvio pensare che la fiscalità non possa essere variabile indipendente nelle scelte, come appare dalla lettura delle statistiche sulle attività finanziarie delle famiglie negli ultimi 50 anni, La cedolare secca del 1963 interruppe la alta propensione verso le azioni. La successiva scelta delle obbligazioni pubbliche fu frenata dall’introduzione della ritenuta sulle cedole all’inizio degli anni ’70. Il grande successo dei depositi bancari iniziò a frenare anche quando fu introdotta la tassazione (dal 10 al 30% nel tempo).
I titoli di Stato - esenti per definizione - furono tassati nel 1986, mentre nel 1998 si introdusse la tassazione del capital gain su tutti gli strumenti finanziari. Accettazioni bancarie, titoli atipici e diverse soluzioni immobiliari sono state favorite e frenate sempre dal modificarsi del relativo trattamento fiscale.
Ultima riflessione riguarda l’utilità della manovra. Raramente dopo il primo anno, il flusso di entrate per l’Erario è stato soddisfacente; il driver si è rivelato un killer per molti strumenti finanziari e l’ultima anomalia, che lascia al 12,5% la ritenuta per i titoli di Stato, è leggibile come un messaggio non tanto subliminale per sollecitare la sottoscrizione del debito pubblico, piuttosto che una manovra per aumentare le entrate.
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