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11/4/2014 | Francesco D'Arco
Quando si parla di articolo 18, sanità pubblica, scuola pubblica e privata, welfare e così via lungo la lista dei temi che quotidianamente invadono i dibattiti politici televisivi, è facile distinguere un rappresentante del centrodestra da uno del centrosinistra. Quando si parla di risparmio gestito questa distinzione tra partiti svanisce e tutti si dimostrano concordi nel considerare questa industria come un bacino ideale nel quale pescare senza incontrare ostacoli. Soprattuto negli ultimi 3 anni il risparmio gestito è stato visto dai politici, di qualunque colore e simbolo, come una sorta di “gallina dalle uova d’oro” in grado di generare entrate nelle casse dello Stato senza rischiare ribellioni, scioperi o simili. Sì è partiti nell’estate del 2011 con il Governo Berlusconi che, in piena urgenza, varò un aumento delle aliquote sulle rendite finanziarie dal 12,5% al 20%. Aumento che toccò tutti gli strumenti, con poche eccezioni, e che venne accompagnato da un “contentino”: la riduzione al 20% della tassazione sui conti correnti. Conti correnti che, in realtà, non passarono inosservati troppo a lungo visto che nel dicembre 2011 ci pensò, sempre in piena urgenza, il Governo Monti con il decreto Salva Italia (ma non salva-risparmio), a introdurre una mini-patrimoniale sui conti correnti degli italiani, prevedendo un’imposta di bollo dell’1 per mille dal 2012, dell’1,5 per mille dal 2013. Ci ha pensato poi il Governo Letta a portare questa impota a quota 2 per mille nel 2014: in pratica in 24 mese la tassazione è raddoppiata. Trattandosi, come dicevamo di una “gallina dalle uova d’oro” la ricerca di entrate tributarie extra per lo Stato ha portato anche il quarto Governo in tre anni, il Governo Renzi, a guardare al risparmio gestito come a una fonte di entrate sicure per le casse dello Stato. E così, nella primavera di quest’anno, è arrivato l’annuncio che dal primo luglio 2014 l’aliquota sulle rendite finanziarie sarebbe passata dal 20% al 26%: praticamente più del doppio dell’ormai lontano 12,5% del 2011. Un 12,5% che permane per alcuni strumenti, su tutti i buoni del tesoro italiani (con buona pace della diversificazione, le imposte sembrano invitare ad un investimento di massa in titoli di stato della cara vecchia Italia, ndr). Finiti i governi e raddoppiate le tasse, in molti pensavamo che le “uova d’oro” fossere ormai finite. Al punto che alcuni hanno osato proporre l’inserimento di una agevolazione fiscale per gli italiani che optavano per un investimento di lungo periodo (ricordate i famosi PIR?). Ma abbiamo sottovalutato la creatività della politica italiana e così è arrivata il mese scorso l’ennesima sorpresa: nella legge di stabilità il Governo è pronto a inserire un nuovo aumento della tassazione sui risparmi degli italiani. E questa volta nel mirino sono finiti i fondi pensione e i PIP (piani di previdenza assicurativi) che vedranno, se tutto procede come annunciato, aumentare la loro aliquota nel 2015 dall’11,5% al 20% (nota bene un aumento, questa volta, in parte retroattivo). Una stangata che pone, a livello di tassazione, uno strumento di lungo periodo e di copertura previdenziale come il fondo pensione allo stesso livello di un conto deposito che, sempre tassato al 20%, prevede obiettivi di breve e logiche di investimento ben diverse. A questo punto un italiano che non conosce il risparmio gestito, di fronte a un fondo pensione con alcuni vincoli nella richiesta di eventuali anticipi del capitale accumulato, costi di gestione e una tassazione al 20%, e un conto deposito, senza spese, facile da liquidare e con una tassazione al 20%, siamo sicuri che opterà per il lungo periodo? A furia di spremere la “gallina” questa rischia di morire, con buona pace dell’educazione finanziaria e dello sviluppo di una cultura del risparmio e dell’investimento, utile per un paese che vuole avviare una ripresa stabile e duratura.
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