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Private equity italiano, AIFI lancia l’allarme

11/16/2023 | Daniele Riosa

L’associazione spiega che “gli operatori del nostro Paese vigilati continuano ad avere difficoltà, a causa, da un lato, della complessità di raccolta sul mercato domestico e, dall’altro, di un regime fiscale che li svantaggia”


Il private equity italiano rischia di incagliarsi se non si correrà velocemente ai ripari. Questo è in sintesi il messaggio lanciato da AIFI dopo al riunione del consiglio direttivo che ha analizzato le principali tendenze di mercato.

L’associazione, in una nota, spiega che “a livello europeo, secondo i dati pubblicati da Invest Europe, l’associazione europea del private capital, l’attività di raccolta nel primo semestre del 2023 sul mercato è diminuita del 60%, 32,9 miliardi di euro rispetto agli 81,3 miliardi registrati nello stesso periodo dell’anno precedente. Anche gli investimenti hanno registrato un significativo decremento, passando da 69,4 miliardi di euro nel primo semestre del 2022 a 32 miliardi di euro nel 2023 (-54%), con una contrazione del 30% nel numero delle operazioni”.

”L’Italia - continua il comunicato - non fa eccezione, anche se a ottobre vediamo un segnale di ripresa almeno lato investimenti. Infatti, dopo un primo semestre che si è concluso all’insegna della decrescita in tutti i segmenti del mercato del private capital, il Pem private equity monitor, osservatorio della Liuc Business School in collaborazione con AIFI, mostra una inversione di tendenza con 42 deal di private equity a ottobre, contro i 26 di settembre e i 16 di agosto. È da evidenziare il fatto che gli operatori italiani non vigilati (club deal, family offices, holding…) hanno realizzato il 36% del totale delle operazioni portate a termine dai soggetti domestici. Si nota, quindi, come gli operatori italiani vigilati continuino ad avere difficoltà, a causa, da un lato, della complessità di raccolta sul mercato domestico che rappresenta un forte vincolo alla loro crescita e al loro sviluppo nel nostro Paese e, dall’altro, di un regime fiscale che li svantaggia”.

“Infatti - prosegue la nota – la regolamentazione di Banca d’Italia, che di fatto assimila i nostri gestori alle banche, risulta particolarmente gravosa, specialmente per gli operatori di piccole dimensioni. Ciò fa sì che ci sia una minore propensione alla costituzione di operatori strutturati nel nostro Paese rispetto a quello che accade nel contesto internazionale. Per questo motivo l’associazione da tempo richiede maggiore proporzionalità e regole non dissimili a quelle applicate nei paesi europei. Occorre rilevare che gli operatori internazionali hanno rappresentato oltre il 50% dell’attività d’investimento complessiva realizzata sul mercato italiano, dimostrando una attenzione crescente verso il nostro tessuto imprenditoriale e fornendo un contributo importante allo sviluppo delle nostre aziende”.

Innocenzo Cipolletta, presidente AIFI, spiega che “un elemento che differenzia il nostro modello rispetto al contesto internazionale riguarda l’ambito di vigilanza, che non tiene sufficientemente conto della proporzionalità, gravando con maggiori costi sugli intermediari di minori dimensioni” dichiara Innocenzo Cipolletta, Presidente AIFI. “La maggior parte dei fondi nasce con piccole dotazioni di capitale e tale condizione andrebbe supportata per raggiungere successivamente una dimensione che sia competitiva sul mercato”.

“Il rischio - conclude il comunicato di AIFI - è di depotenziare l’industria italiana del private capital, di cui dovremmo invece agevolare la crescita, con un’ampia rete di alleanze internazionali. In tal senso l’associazione sta facendo partire un tavolo di dialogo con il sistema francese per creare sempre più punti di contatto con il mercato europeo”.

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