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10/31/2016 | Daniele Federico Monarca - Pigreco Corporate Finance (*)
Nel corso degli anni si sono sviluppate nuove asset class, utilizzate dagli investitori per ridurre il rischio e aumentare il rendimento del proprio portafoglio. Il private equity, (inteso come assunzione di partecipazioni durevoli e rilevanti nel capitale di imprese generalmente non quotate, da parte di investitori finanziari, con la finalità di accrescere il valore della partecipazione e realizzare un consistente capital gain al momento della dismissione della stessa), è una componente fondamentale nell’universo degli investimenti alternativi ed è oggi riconosciuto come attività consolidata all’interno di molti portafogli privati e istituzionali.
L’investimento di private equity è effettuato perlopiù da un investitore istituzionale, che funge da intermediario professionale con l’obiettivo di ottenere una remunerazione sul capitale investito superiore rispetto a quella che normalmente si può perseguire grazie a forme di investimento con un livello di rischio inferiore. Il private equity ha avuto inizio negli anni Quaranta, negli Stati Uniti, per poi svi lupparsi in Gran Bretagna; solo negli anni Ottanta ha cominciato a diffondersi negli altri Paesi europei. Per le aziende italiane e per i loro piani di sviluppo, oggi il private equity rappresenta la più importante fonte innovativa di capitale e la più grande alternativa alla mancanza di affidamenti bancari.
Oggi è comunemente accettata la segmentazione del private equity in base alle fasi del ciclo di vita delle imprese target (oggetto di investimento). Tale modello consente di analizzare i fabbisogni strategici (in termini finanziari, organizzativi e manageriali) di un’impresa, in diversi contesti ambientali e nei diversi momenti della sua storia. A ciascuno di questi momenti corrisponderanno specifiche attività svolte dagli investitori istituzionali:
Nella fase di avvio e sviluppo intervengono operazioni di venture capital, che riguardano l’acquisizione di partecipazioni tendenzialmente di minoranza; nella fase di cambiamento intervengono operazioni di buyout che invece sono tendenzialmente di partecipazioni di maggioranza. I turnaround sono operazioni svolte riguardo a imprese target che versano in condizioni di difficoltà finanziaria.
Le tecniche utilizzate per valutare le partecipazioni rappresentative di un investimento in “private equity”, appartengono sostanzialmente a tre categorie: il metodo dei multipli (secondo cui il valore della partecipazione è determinato applicando ad alcune grandezze espressive della redditività dell’azienda da valutare, che non è quotata, dei moltiplicatori desunti da società quotate il più possibile simili a quella oggetto di valutazione), il metodo delle transazioni comparabili (secondo cui il valore della partecipazione è desunto dall’applicazione ad alcune grandezze espressive della redditività dell’azienda da valutare, dei moltiplicatori desunti da recenti transazioni di mercato di società simili) e il metodo dei flussi di cassa scontati (secondo cui il valore della partecipazione è determinato dal valore attuale dei flussi di cassa che l’azienda è in grado di generare in futuro, in un arco di tempo definito, cui si aggiunge il Valore Terminale e al cui risultato così ottenuto si sottrae l’indebitamento finanziario esistente al momento della valutazione).
Quest’ultimo criterio, noto come DCF (discounted cash flow) è quello più accreditato dalla best practice internazionale in quanto fondato su valori che, ancorchè previsionali, rappresentano con maggior appropriatezza il valore aziendale alla stregua del valore di un qualsiasi investimento, che si basa sulla capacità futura dello stesso di generare flussi di cassa positivi per l’investitore. Estratto del contributo pubblicato su AdivsorPrivate N3 di giugno - agosto 2016
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