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6/29/2016 | Stefano Massarotto – Facchini Rossi Soci
Voluntary disclosure terminata e capitali rientrati in Italia: ora è tempo di gestire gli assets regolarizzati prestando particolare attenzione alla variabile fiscale. Mentre prima i rendimenti erano “gonfiati” dall’assenza di tassazione, ora gli investimenti sono trasparenti all’Amministrazione finanziaria e la fiscalità è un aspetto che non può più essere ignorato.
La scelta delle attività (azioni, obbligazioni, derivati, fondi, polizze assicurative o liquidità) dipende anche dal profilo di rischio dell’investitore e comporta, ai fini delle imposte dirette, carichi fiscali tendenzialmente equivalenti: in generale viene applicata una imposta del 26% sui rendimenti realizzati, con l’opportunità della più mite aliquota del 12,5% sui titoli del debito pubblico di Paesi UE/SEE e delle organizzazioni internazionali riconosciute.
Ma la vera differenza in tempi di rendimenti praticamente nulli la può fare l’imposta di bollo, che con il suo 0,2% sul valore finale dell’investimento non pesa poco. Un investitore avverso al rischio che lascia in deposito € 1 milione di liquidità su un c/c infruttifero non guadagna nulla, ma paga un’imposta di bollo di soli € 34,20; se, invece, il medesimo milione è investito in un fondo money market (con resa ottimistica dello 0,1%), l’investitore, a fronte di un rendimento di € 1.000, dovrà sborsare € 2.000 di imposta di bollo, sopportando, quindi, una perdita netta.
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