Quando si investe in Giappone si dà troppo peso al paese e poco alle storie delle singole aziende. Colpa dell’espressione "Japan Inc." diffusa nel mondo finanziario americano, con cui si indica la forte influenza del governo sulla sviluppo dell’economia e delle aziende private, soprattutto negli anni ’80. Un termine che però rischia di essere fuoriviante quando si comprano titoli di aziende giappoonesi.

Di seguito un commento a cuda di Richard Kaye, gestore del fondo Comgest Growth Japan di Comgest, società di investimento francese che ha mantenuto per diversi anni un’esposizione di circa il 30% del suo portafoglio globale sull’azionario giapponese.

Un po’ come i termini “Wild West” o “Hollywood”, anche il termine “Japan Inc.” disegna ampie pennellate che hanno scarsa aderenza alla realtà e non definiscono un’entità ben precisa. Cionondimeno gli investitori spesso fanno di tutte le società giapponesi un fascio e molte dibattiti sull’azionario giapponese cominciano con un’analisi della situazione demografica e fiscale del paese. Pochi degli investitori di Apple o Intel presterebbero altrettanta attenzione alla situazione fiscale del governo americano o dello Stato della California. È principalmente nei mercati più piccoli che i singoli titoli soffrono la colpa di essere associati all’intero Paese.

Se il Giappone sia attualmente in un contesto positivo o negativo è discutibile ma non è materia sulla quale intendiamo soffermarci. Ciò che intendiamo affrontare è l’erronea associazione del Giappone nel suo complesso con la fortuna delle società che hanno sede nel paese. La comunità d’investimento rifiuta in modo diffuso di guardare al paese in dettaglio e gli intermediari hanno fortemente ridotto l’ampiezza delle analisi, quindi non sorprende che il mercato giapponese nasconda molti tesori.

L’essere “giapponese” tocca le società solo dal punto di vista dell’imposizione fiscale e della valuta in cui produrre le relazioni finanziarie. Alcuni potrebbero affermare che si dovrebbe tenere conto delle leggi del lavoro giapponesi o persino dell’etica del lavoro giapponese ma la nostra replica è che la maggior parte delle società del Paese per vent’anni ha ampliato il numero degli impiegati al di fuori del Giappone, diluendo la portata di entrambi i fattori. Sul mercato giapponese si può guadagnare attraverso l’investimento bottom-up e il dibattito sulla vaga entità chiamata “Giappone”. Tuttavia, i temi dell’Abenomics, della demografia o della geopolitica sono al massimo collaterali alle decisioni di investimento sui singoli titoli oppure del tutto irrilevante. Molte delle aziende di punta giapponesi, infatti, hanno poco a che fare con il Giappone.

In Canon, ad esempio, meno del 10% dei profitti proviene dal Giappone, per Daikin una cifra in diminuzione dei profitti totali (il 28% all’ultimo conto), per Fanuc più del 40% ma solo perché i clienti acquistano i robot prodotti dalla società per rifornire le loro fabbriche in Cina. Questo passaggio può essere ben spiegato con l’esempio di una società molto francese, L’Occitane, e di una molto giapponese, Canon. L’Occitane ha, in realtà, un’esposizione verso il Giappone molto superiore a quella di Canon, se guardiamo al Giappone in rapporto al giro d’affari totale o in rapporto alla crescita recente delle due aziende.

L’eccellenza, insomma, ha poco a che fare con l’avere come sede il Giappone quanto piuttosto con il far crescere una solida base di clienti che tutti i competitor vorrebbero avere. È il classico investimento con “fossati pieni di piraña”, come dice Warren Buffet, e funziona in ogni settore. Semplicemente, questi professionisti hanno sede in Giappone.