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4/9/2018 | Massimo Morici
È "priva di fondamento" la richiesta di nullità del contratto "monofirma". A stabilirlo è l'Arbitro per le controversie finanziarie, istituito presso la Consob, che nella decisione n.288 dello scorso 16 febbraio ha accolto solo in parte il ricorso presentato da un investitore che aveva comprato nel 2007 alcune quote di un fondo hedge, incassando negli anni successivi "significative perdite di valore" superiori al 20% del capitale investito.
L'investitore - un'azienda operativa nel settore delle riparazioni di macchine agricole, che ha presentato poi ricorso ad ACF lo scorso anno - ha chiesto l’annullamento dell’operazione perché nel contratto "risulta firmato solo dal legale rappresentante della società, non reca alcuna firma per l’intermediario e non conteneva alcun riferimento al diritto di recesso che spetta invece ex legge per i contratti conclusi fuori sede". In via subordinata, nella richiesta di annullamento ha menzionato anche l’inadempimento da parte dell’intermediario degli obblighi di corretta esecuzione del servizio di investimento sotto il profilo dell’omessa informazione circa l’elevata rischiosità dell’investimento, della mancata valutazione della non adeguatezza e comunicazione dell'esistenza di un conflitto di interessi.
ACF, tuttavia, nella decisione ha ricordato che la questione della nullità del contratto monofirma "è stata, sino ad oggi, vivamente controversa" e che si può ben sostenere (come ha fatto la banca che ha collocato il prodotto) "che la forma scritta del c.d. contratto quadro sia richiesta nella prospettiva di una migliore protezione del cliente, il quale è del resto l’unico legittimato a farla valere". Non solo. La monofirma non va intesa secondo l'Arbitro tanto come "un requisito necessario del contratto dal punto di vista strutturale", ma all'interno di "una logica funzionale" e cioè "come elemento che permette al cliente di essere pienamente consapevole del tipo di rapporto che va a concludere, con la conseguenza allora che tale funzione può considerarsi certamente soddisfatta anche là dove sul contratto sia presente solo la firma di quest’ultimo, senza che occorra pure la sottoscrizione dell'intermediario".
Un orientamento, conclude ACF, che trova oggi una espressa conferma nella sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 18 gennaio 2018 (n.898). L’ACF, invece, si è espresso a favore dell’investitore riguardo al mancato rispetto da parte dell'intermediario dell'obbligo di valutazione di adeguatezza da parte dell’intermediario, "non ritenendo idonea la mera segnalazione effettuata circa l’estrema rischiosità del prodotto". La banca, inoltre, non avrebbe segnalato l’esistenza del conflitto di interessi, in quanto il prodotto sottoscritto dal cliente era gestito da una SGR facente parte dello stesso gruppo del collocatore. Per ACF, quindi, l’intermediario dovrà corrispondere all’azienda solo il 50% della perdita (59.954,28 euro).
L'operazione in questione risale al 22 febbraio 2007, quando l'azienda aveva investito il 50% delle proprie disponibilità finanziarie (500.000 euro) nel fondo comune BipItalia Low Volatility III Fund, gestito da Bipitalia Gestioni SGR, l’ex asset manager della Popolare di Lodi le cui attività sono confluite in Aletti Gestielle, dopo la nascita, sempre nel 2007, del Banco Popolare (oggi Banco BPM). Le quote del fondo negli anni successivi, si legge nella decisione di ACF, "assumevano in breve tempo i connotati di uno strumento finanziario illiquido": parte degli attivi confluivano in un nuovo fondo, costituito proprio per consentire una migliore loro gestione, e i "disinvestimenti si realizzavano con una tempistica molto dilatata e la liquidazione delle quote si completava solo il 25 febbraio 2015, con una perdita complessiva di 103.906,91 euro".
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