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Un passo indietro chiamato “what if”

3/21/2011 | Giulio Sandrelli

La stampa specializzata ha dato un certo risalto alla recente approvazione, da parte del Committee of European Securities Regulators (CESR, ora ESMA), delle linee guida sugli “scenari di performance” che i gestori di fondi strutturati, a partire dal 1° luglio 2011, dovranno rappresentare ai clienti nel nuovo documento contenente le “informazioni chiave per gli investitori” (noto come KII).


Il punto più delicato riguarda l’adozione del modello what if, che fungerà da criterio guida per descrivere la performance prospettica di ciascun fondo. Secondo un’opinione diffusa, il modello rappresenta un arretramento della tutela degli investitori rispetto al criterio oggi vigente in Italia. È davvero così? Procediamo con ordine.

La direttiva Ucits IV sancisce, per tutti i fondi comuni, il passaggio dal regime informativo del prospetto semplificato a un più conciso documento (il KII, appunto) nel quale sono descritti ai sottoscrittori, tra l’altro, il profilo di rischio dell’investimento e, in alcuni casi, gli scenari di performance.
Un regolamento comunitario attuativo precisa, per i soli fondi strutturati, che il KII deve riportare almeno tre scenari di performance, così da rappresentare le circostanze nelle quali la formula può generare un rendimento basso, medio, alto o negativo. L’individuazione delle circostanze deve fondarsi su ipotesi ragionevoli e prudenti.
Nel dettare le linee guida per l’individuazione degli scenari di performance, il CESR si è confrontato con due ordini di alternative. La prima riguardava l’indicazione delle probabilità di verificazione dei singoli scenari. Il CESR poteva scegliere di indicare, per ciascuno scenario di performance, le ragionevoli probabilità di accadimento: questo è il modello oggi adottato da Consob per l’offerta al pubblico di fondi non armonizzati (nonché per il collocamento di polizze index e unit linked). A quanto pare, è anche l’opzione preferita dagli investitori, secondo alcuni test empirici commissionati in sede comunitaria.
Si è invece preferito limitarsi all’approccio what if, eliminando ogni riferimento alle probabilità di accadimento dei singoli scenari. I gestori si limiteranno quindi a rappresentare su una tabella (o su un grafico) i rendimenti del prodotto in caso di condizioni sfavorevoli, favorevoli e medie, con un disclaimer che avverte circa il fatto che i tre scenari non hanno la stessa probabilità di verificarsi. 
Il secondo problema riguardava il raffronto del rendimento del prodotto in ciascuno degli scenari a quello di un asset privo di rischio, così da offrire al sottoscrittore il quadro delle differenze effettive di rendimento e volatilità tra il fondo e un investimento non rischioso. 
Il confronto con il risk-free asset è d’obbligo in Italia. Anche in questo caso, tuttavia, le linee guida hanno preferito evitarlo. La reazione più diffusa al documento è stata la denuncia di un arretramento delle tutele per coloro che investono in fondi strutturati. Si afferma che l’investitore sarà portato a percepire gli scenari peggiori come ugualmente probabili rispetto ai migliori; e che l’assenza di un confronto con investimenti più sicuri renderà il grado rischio meno chiaramente avvertibile.
Non è detto, però, che le cose stiano esattamente in questi termini. 
Da un lato, il KII dovrà fornire anche un “indicatore sintetico” del rischio (basato sul value-at-risk a scadenza), che classifica il fondo su scala numerica da 1 a 7 ed è accompagnato da una spiegazione del metodo di classificazione. È ragionevole attendersi che tale indicatore supplisca, almeno in parte, all’assenza di un raffronto con titoli privi di rischio.
Da altro lato, è vero che i gestori beneficeranno, nella redazione del KII, di maggiore discrezionalità che in passato. Tuttavia, al di là degli aspetti più tecnici, restano fermi i canoni di condotta degli intermediari: un KII formulato in modo fuorviante può costituire fonte di responsabilità per il gestore anche se il prospetto rappresenta correttamente i rischi per gli investitori. Non è detto, insomma, che maggiore spazio all’autonomia dei gestori comporti una loro minore responsabilità.
 
Articolo tratto dal numero di marzo di ADVISOR

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