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9/26/2024 | Daniele Barzaghi
“Sono 22 anni che mi occupo di gestioni di patrimoni e più o meno da vent’anni sento parlare di protezione abbinata al private banking. Se siamo ancora qui a discuterne, evidentemente non la considero una storia di successo” entra a gamba tesa Fabrizio Greco, responsabile private banking e wealth management di BPER nonché amministratore delegato della controllata (e specializzata) Banca Cesare Ponti, aprendo la tavola rotonda dei capi private durante l’evento “Tutela del patrimonio privato e sostenibilità del debito pubblico nel lungo periodo: il ruolo della Protection nel Private Banking” organizzato da AIPB e Prometeia (Qui le ricerche presentate). “C’è uno iato tra il fabbisogno che 20 anni fa era latente e che oggi, vuoi per il Covid, vuoi per le calamità naturali frequenti, è diventato più evidente al cliente finale”.
“Una ricerca commissionata all’IPSOS ci ha rivelato che soltanto un cliente di fascia private su tre tratta questi temi col proprio banker. Perché questa cosa non viene naturale? Perché un numero così deludente? Il concetto dell’autoassicurazione offerta dalla ricchezza esiste ma non basta. Le nostri reti distributive hanno una certa ritrosia a trattare questi temi con i clienti e quindi lavorano in una logica totalmente reattiva: fondamentalmente aspettano che si verifichi un evento che inneschi il dialogo col cliente” prosegue Greco, che dell’incontro è anche animatore nella veste di vicepresidente dell’Associazione Italiana Private Banking. “C’è un altro tema, secondo me molto importante: una importante fetta di questo mercato è presidiata dai broker assicurativi, concorrenti importanti su una parte dei nostri clienti, soprattutto nell’ambito della protezione immobiliare”.
“E aggiungo un terzo stimolo: i nostri banker, grazie alla componente finanziaria dell’offerta, portano a casa ricavi - non per sè ma per gli intermediari – fino ai due milioni di euro e quindi non possono essere interessati a parlare di premi assicurativi da 5-10.000 euro. Non può essere quella la chiave d’ingaggio; può esserlo invece che, grazie agli strumenti assicurativi, liberano risorse dei clienti che possono essere investite. Si mobilitano quelle somme lasciate in giacenza sotto la voce del ‘non si sa mai’ ”.
“Noi delle banche abbiamo certamente un problema culturale” gli risponde Carlo Giausa, vice-direttore generale Wealth Management, Advisory & Solutions di Mediobanca Premier. “Parliamo un attimo dei nostri banker: sono italiani, scaramantici, hanno la moneta precauzionale per le proprie famiglie e loro per primi non si assicurano. Perché dunque dovrebbero avere la propensione ad assicurare un cliente? I private banker italiani hanno tendenzialmente una cultura di asset management: guardano i mercati finanziari dalla mattina alla sera, parlano di asset allocation e volatilità, ma difficilmente discutono di assicurazioni; non fa parte del nostro ecosistema”.
“Non possiamo pensare di instillare la cultura di un assicuratore: è una professione diversa. Però dobbiamo aumentare la nostra preparazione in materia, che oggi è veramente bassa. Le nostre direzioni Advisory sono popolate da gente che fa asset management e poi, magari, c'è un pezzettino del team che segue le assicurazioni. Dobbiamo diventare più bravi a fare risk management della famiglia su tutti gli aspetti, non soltanto per la parte finanziaria” prosegue Giausa. “Se un cittadino non supera la mentalità dell’autoassicurazione, della moneta precauzionale, non investirà che a breve termine. Se invece è tutelato potrebbe invece aumentare il proprio orizzonte temporale e magari investire di più nell’equity che sul lungo conviene sempre. Quindi grande bagno di umiltà nel mondo delle banche”.
“Il mercato italiano è un’eccellenza per lo small private banking. Noi non abbiamo clienti da 50 milioni di dollari come base delle nostre banche: abbiamo tantissimi clienti tra i 500 mila euro e i 5 milioni di euro di patrimonio investibile” aggiunge il dirigente di Mediobanca. “Se ho un cliente imprenditore sotto-assicurato che ha due milioni di patrimonio, due figli, l'impresa e due case, e gli succede qualcosa, in una notte la sua famiglia diventa mass market. Quindi su questo soprattutto le nostre direzioni devono compiere una grande evoluzione culturale, assumendo più professionisti con cultura assicurativa e facendo Protection platform oltre che Financial platform”.
“Io ho sempre fatto il commerciale e spero di continuare a farlo sempre” si unisce il terzo protagonista del dibattito, Francesco Rossi, a capo del Private Banking di Banca Monte dei Paschi di Siena. “Se le statistiche ci dicono che in banca collochiamo il 24% delle polizze è una bellissima notizia: vuol dire che abbiamo il 76% da conquistare. Se avessi già oggi il 70% probabilmente non ci farei investimenti. Forse bisogna anche ammettere che siamo stati un po' imbranati su questa cosa: non ce l'abbiamo proprio nel DNA; in banca facciamo un sacco di fatica su questi temi”.
“Il problema centrale è capire oggi come investire. I nostri banker sono abituati, come tutti, a stare nella loro situazione di confort: vanno dal cliente, guardano il portafoglio, vendono il risultato finale, l’assistito è contentissimo, si apre il prosecco. Mentre il cliente stappa la bottiglia, il banker dovrebbe dirgli ‘aspetta un attimo. Ti devo dire che ti possono succedere le peggiori jelle del mondo: la cosa migliore di cui ti dovrei parlare è una morte anticipata, perché invece c’è anche la possibilità che resti infermo’. I nostri banker non riescono, giustamente, a passare da una situazione di positività, che devono vendere al cliente, alla trasmissione di un'esigenza drammatica. Abbiamo fatto valanghe di corsi con i banker, una formazione incredibile: è servito davvero a poco.
“Dal mio punto di vista la soluzione è rappresentata dalle piattaforme tecnologiche, che analizzano le esigenze di protezione dei clienti. Se lasciamo l'iniziativa al singolo banker passano altri vent’anni, come diceva Fabrizio. I programmi ci sono; manca l’inserimento concreto nelle piattaforme, ma ci arriveremo presto. Ormai sono scelte obbligate”.
“C’è anche da dire che quando guardi un catalogo di prodotti assicurativi ti scoraggi” riprende la parola Fabrizio Greco. “Ci sono una marea di specifiche tecniche, estremamente complesse per un non-specialista. Servirebbe una tassonomia comune per categorizzare i rischi, per meglio palesare a clienti e banker le aree già tutelate e quelle pericolosamente scoperte. Non è immaginabile che i banker diventino specialisti di questi temi: quando devi vendere una polizza Grandi rischi a un cliente, soprattutto uno pervicace come sono spesso i clienti di fascia private non te la cavi con 1-2 incontri veloci; ne servono 5-6. Il pb deve avere una struttura di supporto, un tecnico al proprio fianco”.
“Per non parlare del post vendita, del funzionamento della polizza nel momento del bisogno, soprattutto se l’hai venduta a un professionista abituato nella sua vita a condizioni di efficienza estrema; non solo in banca, ma anche quando viaggia, quando va a un concerto, al festival di Venezia. È abituato a esperienze che funzionano sempre molto bene” esemplifica. “Il post vendita irrigidisce il cliente ma ancor più il banker, perché sa che sta andando in un terreno non proprio ed è certo che il cliente incolperà lui di qualunque inefficienza, col rischio di compromettere anche storiche e fruttuose relazioni nell’ambito degli investimenti”.
“E infine il tema dell’offerta. Perché io penso che, se il nostro target è il cliente tra i 500.000 e i 5 milioni di euro di patrimonio, i prodotti li abbiamo. Ma devono essere personalizzati, perché un cliente non valuta la polizza in sé ma i servizi che gli garantisce, le strutture convenzionate, il medico che lo opererà e se dopo aver pagato 6-7.000 euro non trova in elenco l’importante casa di cura milanese, romana, torinese che aveva in mente, tendenzialmente valuterà che quel prodotto non serve a nulla” sintetizza e conclude: “Serve davvero un lavoro di perfezionamento a quattro mani, tra distributori e produttori, tra chi ha in mano i clienti e chi fornisce i servizi”.
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