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7/9/2012 | Massimo Morici
Che il private equity sia la principale risorsa per portare nuovi capitale alle imprese italiane, lo dimostrano anche i dati di Piazza Affari, il cui saldo dal 1998 ad oggi tra i soldi che sono arrivati in Borsa e quelli che sono andati agli azionisti sottoforma di dividendi piomba a -240 miliardi.
Un deflusso che, assieme alla svalutazione dei titoli, in seguito alla crisi, ha portato la piazza finanziaria italiana a valere oggi non più del 20% del Pil con una capitalizzazione di 445 miliardi di dollari (327 miliardi di euro) al primo luglio. Una cifra, inferiore persino alla borsa di Madrid (5460 miliardi di dollari) e pari a un terzo di quella di Parigi (1.419 mliardi), lontana poi dalle dimensioni di borse come quella di Londra (3.019 miliardi dollari) e Francoforte (1.282 miliardi di euro).
"La borsa da questo punto di vista, ovvero di canalizzare risorse verso le attività produttive non sta facendo il suo lavoro, il che però diventa un problema anche per lo stesso private equity, che quando deve uscire dall'investimento trova difficoltà ad utilizzare questo canale", accusa Enzo Cipolletta intervistato da Repubblica, presidente di Aifi, l'associazione italiana degli operatori nel private equity. Tuttavia, il delisting in Europa raggiunge un tasso annuo del 6,5%, e in Italia "siamo ben sotto questi livelli", ha replicato l'a.d. di Borsa italiana Raffaele Jerusalmi.
Stando al rapporto annuale della Sda Bocconi, nel 2011 il private equity italiano ha lanciato i primi segnali di ripresa, dopo un crollod el 60% nei tre anni successivi alla crisi del 2008, con operazioni concluse aumentate del 9%, operazioni di leveraged buy out in crescita del 13% e quelle senza utilizzo di leva del 6%.
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