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3/20/2023 | Giuseppe G. Santorsola*
Ritorno sul tema trasversale della remunerazione delle attività connesse alla intermediazione del risparmio con la clientela individuale; la sintesi più idonea per ricomprendere l’insieme sotto analisi per la ri-regolamentazione comunitaria del mercato finanziario (MiFID II-bis o MiFID III).
Il risparmio deve fluire verso gli investimenti finalizzati a creare rendimento per i datori del primo e ricchezza reale per i prenditori. Scontiamo per assodata l’ipotesi che la maggior parte dei flussi passa per intermediari leggeri e non attraverso il circuito bancario che ne assorbe i rischi (in Italia i primi sono più del doppio dei secondi). Si discute (o si vorrebbe imporre) che il canale più trasparente ed economico sia quello di un prezzo unico suddiviso con retrocessioni tra i vari attori (con rischio e realtà di inducements), oppure sia ripartito fra la fee per il servizio di consulenza e il costo per ottenere i prodotti e vederseli gestiti dalle case di investimento, senza la confusione contabile di un unico elemento di prezzo.
Se osserviamo il contesto internazionale, ritroviamo tutte le possibili soluzioni, ciascuna inquadrata in strutture dei mercati fra loro diverse. Una ragione in più per non imporre un’unica “guidance”.
Ciascun protagonista del mercato può riconoscersi nella posizione di dealer di quanto abbia avuto mandato o vincolo di distribuire (tied o non indipendente nelle diverse accezioni), oppure in quella di broker che indirizza i propri clienti verso soluzioni di servizi che si indirizzano verso l’insieme dei prodotti presenti sul mercato (untied o indipendenti).
Preferisco per scelta semiotica la lingua inglese rispetto a quella italiana per riconoscere il meglio il ruolo professionale svolto, ma riconosco il peso economico di situazioni consolidate che privilegiano la scelta univoca del termine consulenza. Non concordo sulla conclusione (della Consob) che non vi sia propensione del pubblico per la consulenza; affermarlo è una sconfitta della capacità di educare in un terreno dove la cultura in materia è scarsa.
Ritengo che il costo finale unificato sia maggiore e non trasparente, ma temo che le due “industries” separate possano determinare almeno inizialmente costi più elevati e destabilizzare assetti consolidati, con effetti negativi sull’utente finale.
Sono un liberista e non apprezzo divieti cui il mercato sia obbligato ad adeguarsi. Si creerebbero opacità, forse qualche dissesto ed abusi di mercato. Non desidero restare incatenato da una blockchain di fatto tra produttori e distributori, risultandomi negata la possibilità di muovere la mia ricchezza sull’intero mercato. Ammetto però che vi siano altri soggetti che preferiscano confidare sulla fiducia verso un intermediario piuttosto che verso un soggetto (anche societario) che mi introduca nel mercato senza suoi legami (mandati o inducement).
Per la proprietà transitiva, preferisco – a livello normativo – che convivano le due soluzioni (fee e retrocessioni), con una appropriata distinzione delle regole specifiche, certificazione e trasparenza degli inducement e in una cornice comune e separata. Debbo ammettere che la MiFID II ha mancato di conseguire i suoi obbiettivi. In altre parole, sono contrario ad una iper-regolamentazione che spinga verso una soluzione unica.
Il problema di fondo non è la battaglia fra retrocessioni e fee, ma la chiarezza fra promozione (per agenti, mandatari, dipendenti e dealer) e consulenza (per indipendenti privi della capacità di intermediazione diretta).
Il dibattito deve salire di livello; gli eventi delle ultime settimane mettono a rischio la fiducia verso l’intermediazione, una ragione per non rinviare. Nei mercati vi sono più di 100.000 miliardi €/$ di asset under management e, quindi, qualche migliaia di miliardi di €/$ di fee, retrocessioni, inducement.
*Professore Ordinario di Asset Management, Corporate Finance e Corporate & Investment Banking Università Parthenope – Napoli
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