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2/14/2020 | Redazione Advisor
Il processo di deleveraging non è andato di pari passo in tutte le aree. Come spiega Nikolaj Schmidt, chief international Economist, T. Rowe Price “negli USA, se da un lato le famiglie hanno ridotto drasticamente il proprio indebitamento, le società, escludendo quelle finanziarie lo hanno aumentato in modo significativo. I finanziamenti ottenuti da queste società sono stati impiegati principalmente per operazioni di ‘ingegneria finanziaria’ come riacquisti azionari, pagamento di dividendi e acquisizioni, che non supportano la crescita economica. In Europa e in Giappone, la riduzione della leva è stata più sfaccettata, ma vi è stato un forte impulso a contenere i deficit fiscali che si erano gonfiati durante la crisi. Il deleveraging in Cina è il risultato di un cambiamento fondamentale nelle priorità politiche dalla crescita alla stabilità finanziaria e si è concentrato nell’area non-household”.
Cosa accade quando tutti vogliono ridurre la leva, ad esempio, mettendo da parte dei risparmi nello stesso momento? “La domanda più debole spinge la crescita al ribasso e l’eccesso di fondi mutuabili fa calare i tassi di interesse. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che vi sia qualcosa di ‘naturale’ in una riduzione secolare dell’indebitamento. In qualunque economia con una popolazione in crescita, il debito delle famiglie dovrebbe rappresentare una componente crescente dei redditi aggregati complessivi. Infatti, l’aumento del numero delle famiglie richiede un aumento della disponibilità di abitazioni. A sua volta, ciò richiede che vengano aperti dei mutui, da parte delle famiglie stesse o da chi affitta le abitazioni”.
“Una conseguenza del processo di deleveraging – sottolinea l’analista - è che esso ha lasciato l’economia globale con ben pochi sbilanciamenti: infatti, solitamente non si verificano boom di capex o di consumi in un’economia che sta riducendo l’indebitamento. La maggior parte delle recessioni emergono in risposta agli eccessi; di conseguenza, da un punto di vista macro, l’economia mondiale si trova in una situazione insolita di resilienza, se si considera la durata già prolungata della fase di espansione attuale. Una correzione prima o poi sarà inevitabile, ma l’assenza di veri e propri sbilanciamenti macroeconomici dovrebbe attenuarne l’impatto. Siamo forse troppo poco preoccupati dei livelli di indebitamento in crescita nel settore corporate statunitense (banche escluse)? Sicuramente si tratta di una fragilità che con tutta probabilità giocherà un ruolo importante nella prossima recessione. Tuttavia, dato che questo debito non si è propagato nell’economia reale nella forma di un’esplosione di capex, è improbabile che abbia creato distorsioni macro significative”.
Che cosa potrebbe spingere consumatori e imprese a tornare a prendere a prestito e sostenere la crescita? L’esperto spiega che “questa è una domanda più complessa. Innanzitutto, occorre smaltire le ‘scorte’ nel settore immobiliare residenziale, ma anche questo non è sufficiente. Infatti, indebitarsi richiede un certo grado di fiducia nel futuro, di cui la stabilità politica è una componente chiave. Negli ultimi anni tuttavia abbiamo assistito alla disputa commerciale tra Usa e Cina, alla saga di Brexit e all’ascesa del populismo e dei partiti anti-establishment. Sarà necessario il ritorno a un certo grado di stabilità politica prima che famiglie e imprese tornino a spendere".
“La persistenza di una domanda contenuta e di tassi di interesse bassi degli ultimi dieci anni sembra essere più il risultato di un processo di deleveraging legato agli squilibri macroeconomici precedenti alla crisi finanziaria che non della stagnazione secolare. Per questo, riteniamo che l’economia globale sia in una posizione migliore rispetto a quanto prospettano i sostenitori della stagnazione secolare”, conclude Schmidt.
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