Regno Unito ostinatamente a rilento, si legge nel commento settimanale. Ma cosa dire delle prospettive a più lungo termine?
Secondo JP Morgan, si deve partire da qui. Dal Regno Unito, che procede ostinatamente a rilento. L’economia britannica - si legge nella nota - non ha navigato in buone acque di recente, rimanendo per tutto il primo semestre del 2012 in recessione. Il mercato azionario del Regno Unito è stato deludente, con una progressione dell’indice Ftse-100 relativamente modesta, al 4,3% da inizio anno, a fronte del 10,5% dell’indice paneuropeo Djstoxx600 e di quasi il 14% dell’S&P500. Tuttavia, tra alcuni analisti è aumentato l’ottimismo in merito sia alle prospettive dell’economia (e delle azioni) del Regno Unito, a seguito di un miglioramento degli indici dei responsabili degli acquisti, sia alla possibilità di un ritorno a una crescita positiva del Pil reale nel terzo trimestre, che potrebbe collocarsi attorno allo 0,5% su base trimestrale.
JP Morgan rimane in parte scettica, ma "abbiamo ritenuto utile riesaminare il quadro complessivo.
Sebbene la dinamica economica a breve termine appaia migliore nel Regno Unito rispetto a gran parte del continente europeo, il recupero del Pil nel terzo trimestre sembra in larga misura ascrivibile a una ripresa tecnica dai fattori che hanno frenato la crescita nel primo semestre (le condizioni meteorologiche, il Giubileo della Regina e le Olimpiadi). Le stime di consenso per il 2013 danno l’espansione del Pil reale in rialzo a circa l’1%, una prospettiva che non appare eccessivamente entusiasmante, per quanto effettivamente migliore che nella maggior parte dell’Eurozona. Più in generale, in termini reali la produzione economica britannica resta al di sotto del 4% rispetto ai massimi pre-crisi, mentre negli Stati Uniti e in Germania si situa al di sopra dell’1,7% circa".
Ma cosa dire delle prospettive a più lungo termine? Il Regno Unito - aggiungono da JP Morgan - è alle prese con un ciclo di riduzione dell’indebitamento che sta frenando la crescita, al pari del resto del mondo occidentale per lo più, ma sulla carta ha anche molti fattori che giocano a suo favore. Innanzitutto, il suo maggiore vantaggio è probabilmente lo status di porto sicuro di cui ha beneficiato sui mercati obbligazionari, con rendimenti dei titoli di Stato solo appena sopra quelli statunitensi. La principale differenza con altri paesi in fase di austerità del continente europeo è la capacità del Regno Unito di stampare moneta e, pertanto, la minore probabilità di giungere a un’insolvenza conclamata (un’insolvenza camuffata dall’inflazione è decisamente più preferibile tra gentlemen).
Un ulteriore (connesso) vantaggio è la volontà della Banca d’Inghilterra (seppur tardiva) di tentare una rottura con quella che era sinora considerata l’ortodossia economica. Questa si è manifestata nella solerzia con cui è stato perseguito l’allentamento quantitativo (il bilancio della Banca d’Inghilterra si è ampliato del 350% circa dal 2008, molto di più del 220% di quello della Federal Reserve o del 170% della Bce), nonché nella disponibilità a sperimentare nuove politiche come il programma Funding for Lending. Ciò è ovviamente in netto contrasto con l’ostentato impegno del governo a favore dell’austerità fiscale.
Un altro vantaggio del Regno Unito si rivela essere la relativa solidità del suo mercato del lavoro, con una crescita dell’occupazione relativamente vigorosa nel raffronto internazionale fornito dai dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) e un tasso di disoccupazione relativamente stabile attorno all’8% (a fronte di un tasso del 25% circa in un paese parimenti alle prese con l’austerità come la Spagna). Ciò ha consentito al governo di mantenere la rotta dell’austerità, ma ha suscitato un dibattito sul perché la produttività nel Regno Unito sia così fiacca e sull’ipotesi che il reale livello della capacità produttiva inutilizzata sia molto più basso. In tale eventualità, il potenziale di futuro allentamento monetario sarebbe limitato. Una spiegazione avanzata da David Blanchflower, ex membro del Comitato di Politica Monetaria, è che il vero quadro occupazionale avrebbe potuto essere molto più debole, ma cela per lo più l’effetto del rimpatrio dei migranti. Giacché non avevano mai avuto intenzione di sistemarsi stabilmente nel Regno Unito, non erano comunque registrati nei dati sull’occupazione. Se tale spiegazione è anche solo in parte corretta, il dato reale sulla produttività nel Regno Unito può non essere poi così negativo, e un approccio liberale ai flussi migratori ha di fatto aiutato ad attenuare l’impatto avverso dell’austerità fiscale.
"Austerità? Quale austerità?" è un altro capitolo del commento settimanale di JP Morgan. Sfortunatamente il governo britannico non è semplicemente stato molto efficace nel riportare il deficit di bilancio sotto controllo. L’Office for Budget Responsibility (Obr) si attende attualmente un indebitamento netto del settore pubblico in flessione al 5,8% del Pil nell’esercizio finanziario corrente, ma anche con ipotesi di crescita piuttosto ottimistiche anticipa una stagnazione al 5,9% l’anno prossimo (escludendo il trasferimento degli attivi del fondo pensione della Royal Mail). Le previsioni sul settore privato sono molto più pessimistiche e alcuni analisti ipotizzano un nuovo ampliamento del disavanzo a quasi il 7% l’anno prossimo. Un declassamento del rating sul debito sovrano del Regno Unito appare pertanto sempre più probabile.
La crescita delle esportazioni, inoltre, dovrebbe essere una delle principali determinanti della ripresa britannica secondo la classica ricetta dell’Fmi per affrontare i disavanzi eccessivi. Una più rapida crescita degli ordini faceva indubbiamente parte della strategia del governo, ma in termini reali l’export è rimasto stagnante dal secondo trimestre del 2011, forse a dimostrazione del rischio insito quando troppi paesi puntano sull’incremento delle esportazioni per completare il proprio ciclo di riduzione dell’indebitamento. Non tutti i paesi al mondo possono usare le esportazioni in contemporanea per uscire dai guai.
Il commento si conclude con "un pensiero vagamente eretico" che forse un futuro declassamento del debito sovrano britannico potrebbe essere di fatto benefico. "I nostri colleghi del reddito fisso stimano l’impatto di un declassamento del rating del Regno Unito sui rendimenti dei Gilt ad appena 30 punti base circa, difficilmente sufficiente a incidere davvero sulle finanze pubbliche britanniche. Ma l’aspetto positivo sarebbe che un declassamento potrebbe finalmente far abbassare la sterlina. Certamente, sul più lungo termine, la reale soluzione dei guai del Regno Unito è legata alla fine della crisi dell’euro e magari a un ribasso dei prezzi dell’energia. Nel frattempo, ci basterebbero un tasso di cambio più basso e una crescita delle esportazioni un po’ più alta".
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