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12/11/2024 | Daniele Barzaghi
J.P. Morgan Private Bank è l’unico operatore internazionale con una significativa presenza in Italia esclusivamente dedicato ai grandi patrimoni: 10 milioni di euro la soglia d’ingresso.
Sarah Catania (in foto) ne guida la divisione italiana da cinque anni e nel 2024 ha assunto anche l’incarico per la Grecia.
Sarah Catania, ti definiresti una “nativa” J.P. Morgan?
La mia storia con J.P. Morgan inizia più di vent’anni fa. Prima della fine del corso di laurea ho avuto l’opportunità di entrare in banca con una internship nella divisione di Markets nella Investment Bank, che era la mia iniziale area d’interesse. Ero mossa soprattutto da curiosità. Volevo scoprire il mondo che si sviluppava in realtà come queste. Invece, ho trovato una casa professionale e, soprattutto, una grandissima scuola di formazione in materia di mercati finanziari: Il training rimane ancor oggi un fiore all’occhiello del gruppo, un tratto culturale tuttora distintivo. Quindi iniziai, nel 2004, nel ruolo di sales per clienti istituzionali nel mondo Credits&Rates.
Nel 2010 arrivò il Wealth Management.
La banca stava intraprendendo una importante stagione di sviluppo del Private Banking a livello internazionale e, rispettando quello che era il suo DNA, ha iniziato in primis focalizzandosi su soluzioni di investimento per soggetti di dimensione e natura istituzionale, offrendo una consulenza fortemente specialistica alle grandi holding familiari.
Si decise in quel momento di ampliare la compagine nazionale; scelsi così di cambiare linea di business, una grande opportunità data da un gruppo così ampio. Entrai nella private bank con il ruolo di Investor, assumendo successivamente la guida della squadra dedicata agli investimenti dei grandi patrimoni. Quattro anni fa, ho preso la responsabilità del Private Banking italiano. E, sei mesi fa, delle nostre attività in Grecia. Un percorso lungo. E intenso.
Un percorso se vuoi anche generazionale. Iniziato quando l’Investment Banking era il fratello maggiore e il Private Banking e l’Asset Management ricoprivano un ruolo un po’ ancillare.
È indubbio che a livello internazionale l’attività dell’Investment Banking fosse storicamente dominante: J.P. Morgan è in Italia da più di 100 anni ormai, e fino ai primi anni 90 si è sviluppata prevalentemente come soggetto di Corporate & Investment Banking. La mia generazione ha avuto, però, la possibilità di assistere all’espansione in tutto il mondo di un tipo di servizio, quello del private banking, che era rimasto fino ad allora ristretto agli Stati Uniti.
Andrea Ragaini, presidente di AIPB, evidenzia spesso la ancora poca conoscenza che i giovani studenti hanno del mondo del Private Banking, a vantaggio di altri ruoli in finanza.
Condivido l’attenzione di Andrea. Il tema esiste e stiamo facendo un certo sforzo comunicativo. C’è ancora poca conoscenza della poliedricità della professione del private banker, dell’ampio raggio di azione, della possibilità di costruire dialoghi con i clienti sugli argomenti più diversi. Un ruolo che il Private Banking offre e che è ancora più rilevante quando, come nel nostro caso, sei specializzato in grandi patrimoni familiari. In questi anni sia per gli importanti passaggi generazionali di patrimoni già avviati, sia per un susseguirsi di eventi di liquidità che hanno trasformato attività industriali in ricchezza finanziaria, le grandi realtà familiari e i family office a loro servizio hanno iniziato a guardare davvero agli investimenti a 360 gradi e con un livello crescente di professionalità. In questo contesto vediamo i nostri portafogli esprimersi al meglio.
Questo è poco raccontato ai ragazzi nelle università: sono ancora poche le facoltà che offrono corsi davvero specialistici. La responsabilità comunque, a mio giudizio, resta delle aziende.
Torniamo al tuo percorso. Posta la struttura di J.P. Morgan, in cosa stai sentendo di caratterizzare personalmente il tuo mandato?
La mia carriera è nata seguendo una passione che, per sua natura, era molto tecnica. Se mi avessi chiesto all’inizio cosa avrei voluto fare forse ti avrei risposto il trader. Nutrivo un interesse genuino, una forte curiosità per i mercati finanziari.
Nel maturare la mia esperienza professionale, però, ho trovato due linfe. Innanzitutto le capacità relazionali: l’abitudine ad interagire con i clienti istituzionali prepara a tenere una conversazione articolata anche quando si interagisce con la clientela privata; in seguito sono emerse le competenze manageriali: essere stata in questa banca per vent’anni, aver lavorato ed essermi confrontata con diversi ambiti di attività mi ha formata, insegnandomi a portare al cliente imprenditore l’area di competenza della banca più adatta a rispondere ai suoi bisogni, ascoltando e recependo le sue istanze, a prescindere dagli aspetti di private banking in senso stretto.
Essere a disposizione del cliente e portargli l’intero universo J.P. Morgan è un tratto distintivo del modus operandi aziendale.
Voi coprite un tipo di segmento per cui in Italia avete davvero pochi competitor, lo dico io per evitare imbarazzi. Ma al di là del posizionamento di mercato, delle soglie milionarie di accesso e degli elementi fin qui emersi in cosa trovi distintivo il vostro private banking?
A mio parere esistono due forti elementi distintivi rispetto alla concorrenza. Il primo è, indubbiamente, l’internazionalità. Ma in un senso un po’ meno scontato di quello che potrebbe sembrare: un cliente di J.P. Morgan è tale indipendente dalla sua localizzazione geografica. Anche questo tratto fa parte della cultura aziendale. I nostri clienti possiedono patrimoni largamente collocabili in Italia ma non per questo vengono considerati clienti italiani. Possono accedere alle stesse opinioni e opportunità a disposizione di ogni nostro cliente ovunque nel mondo.
E questo mi porta al secondo elemento distintivo, forse il più importante: la nostra piattaforma investimenti. Un elemento che consente di dare accesso a dove è giusto essere; e questo in nessun modo significa essere esterofili, affatto. Certo veniamo da 15 anni di sovraperformance del mercato statunitense, in termini di risultati e di sviluppo di nuovi comparti, e avere un grosso osservatorio negli Stati Uniti ci ha consentito a cascata di comprendere appieno l’evoluzione del ciclo economico.
Facciamo un identikit dei vostri clienti, che ci permetta di superare la definizione di “grande famiglia”.
Il nucleo primigenio, tuttora determinante, è rappresentato da grandi gruppi imprenditoriali familiari. Quello che mi sembra più interessante evidenziare è come, soprattutto negli ultimi dieci anni, abbiamo allargato lo spettro rispetto ai comparti industriali tradizionali. Con piacere abbiamo visto emergere diverse eccellenze del mondo della moda, dell’healthcare, innovatori del digitale, e questo, a nostra volta, ci ha consentito di acquisire un raggio di azione maggiore.
L’apertura del capitale di alcune aziende o le più frequenti operazioni di private equity hanno permesso di avere più scala. Quindi siamo passati da una stagione caratterizzata da cessioni ad una di rafforzamento delle imprese, a fronte anche di una crescita dei patrimoni personali dei clienti. Nel momento in cui il passaggio generazionale non è più limitato alla proprietà dell’azienda ma dell’intera liquidità, si genera la volontà di investire anche in termini imprenditoriali e non solo necessariamente finanziari. Questo sta diventando un campo di azione molto interessante.
Beh fa piacere anche dal punto di vista del tessuto imprenditoriale nazionale. Al vostro livello, il cliente effettivo, il beneficial owner anglosassone, è ancora una singola persona, affiancata dai suoi family officer? Restiamo nel cliché del capofamiglia maschio, vecchiotto?
È la famiglia. A me non piace mai ragionare per età, neanche quando parliamo della nostra struttura, però, l’essere volutamente ben diversificati anche dal punto di vista generazionale si traduce oggettivamente anche nella ricchezza di giovani talenti. Questo, unito alla possibilità di formazione che offriamo a tutti i figli dei nostri clienti, ha fatto sì che potessimo offrire interlocutori che fossero più vicini a tutte le generazioni. Il che, senza generalizzare, ha portato i nostri clienti a coinvolgere i figli nell’interazione.
Parliamo della vostra struttura italiana. Non credo di equivocarmi se vi definisco nel perimetro delle prime dieci strutture di private banking per masse in Italia. Lasciamo stare i miliardi specifici. Voi peraltro non amate diffondere le masse nazionali.
Un aspetto non cambiato in questi anni di conoscenza.
Andiamo invece sui numeri del team e raccontiamo chi sono oggi i vostri private banker
I client advisor sono 33, includendo i colleghi che noi chiamiamo “investor”.
Questo incremento di persone ha avuto tre ‘canali di rifornimento’. Innanzitutto la componente giovanile: con formazione costante, affiancamento ai senior e poi libertà di percorrere la propria strada. Poi, per la prima volta, abbiamo assunto anche a fuori: ci è sembrato inevitabile per accelerare la crescita e credo che continueremo a farlo.
E dall’estero? Non avete riportato nessuno? La fiscalità agevolata sta aiutando?
Quello è il terzo canale! Con la visibilità internazionale assunta dalla piazza milanese, con piacere abbiamo reintegrato colleghi che avevano maturato esperienze negli Stati Uniti o in Svizzera, che hanno portato un ulteriore elemento di diversità di pensiero e di approccio. Non penso ci sia soltanto un driver legato alla fiscalità: dopo Brexit ogni nostro ufficio europeo ha finalmente assunto quella dimensione critica tale da consentirgli di riattrarre talenti che prima avevano scelto piazze più ampie. Noi favoriamo i movimenti di professionalità tra linee di business perché esperienze significative e diverse sono una fonte di nutrimento professionale. Non è indifferente.
I vostri giovani sono neolaureati o hanno già avuto esperienze?
Arrivano quasi tutti da neolaureati, anche se questo non è alternativo all’aver già maturato esperienze professionali. Privilegiamo ad esempio chi durante l’università ha inserito percorsi formativi all’estero e quasi sempre arrivano con una o due stage all’attivo. Abbiamo un meccanismo di selezione molto rigoroso per le summer internship: arrivano, stanno con noi due mesi e, se assunti, entrano nel nostro analyst program che inizia a luglio con un mese e mezzo di formazione negli Stati Uniti e da lì vengono integrati nell’organico. Spesso con te abbiamo parlato delle tre linee guida di J.P. Morgan che sono anche quelle che a me danno grandissimo comfort strategico: investimenti incessanti in persone, tecnologia e soluzioni di investimento. Queste tre direttrici hanno permesso negli anni grandissima sostenibilità e resilenza: i clienti vogliono interazioni stabili, non vogliono confrontarsi con promotori che si spostano tra sempre diverse controparti vendendo il portafoglio. Anche per questo noi abbiamo soltanto dipendenti. E aggiungerei che a differenza di molti nostri competitor internazionali, noi in Italia siamo banca a tutto tondo e proprio dalla banca inizia la storia di J.P. Morgan nel Paese; è una scelta di campo molto forte, non soltanto una presenza per investimenti.
Il commitment richiede continuità. Quando sei custode dei patrimoni delle persone devi avere profonda conoscenza di ciò che accade. Noi abbiamo anche, non ho problemi a dirlo, un’interpretazione molto stringente dei criteri di professionalizzazione che MiFID porta avanti. Dopo MiFID II, per fare un esempio concreto, abbiamo scelto di adottare un modello puramente consulenziale anche in amministrato, un modello privo di retrocessioni, a differenza di altri soggetti.
La sostenibilità nei comportamenti rimanda, nell’industria finanziaria, anche alla sostenibilità negli investimenti. In una fase peraltro dove le soluzioni ESG sembrano far perdere opportunità di redditività.
Noi abbiamo sempre la responsabilità di cercare di capire quali siano i grandi trend a 5, 10, 15 anni ed è indubbio che un movimento orientato alla sostenibilità in generale sia inarrestabile. Come tutti i grandi trend subirà battute di arresto e ripartenze, ma come per i mercati, è bene possedere e mantenere idee di medio e lungo termine. Non ne abbiamo mai fatto un punto di esclusività, ma moltissimi clienti ci hanno chiesto di assecondare queste esigenze e finora siamo sempre stati in grado di declinare in tal senso i portafogli. In particolare nel mondo anglosassone, un po’ meno in Italia, le grandi fondazioni e alcuni family office lo hanno incorporato nei mandati, in maniera slegata dalla redditività.
Un discorso estendibile anche agli investimenti alternativi? Sono strumenti proponibili ai clienti private?
Negli Stati Uniti e a Londra abbiamo oltre 100 professionisti dedicati esclusivamente a structuring e due diligence per il mondo degli alternativi, non seguendo soltanto criteri di performance ma anche di trasparenza e coerenza. Se penso al private equity, abbiamo da decenni una piattaforma dominante e, mentre altri operatori si sono avvicinati a questo mondo di recente, noi abbiamo già avviato un percorso diverso, dando accesso a gestori di nicchia ed espandendoci sul mondo di real asset, infrastrutture, private credit e investimenti diretti. I rischi di concentrazione esistono, ma si risolvono applicando ferrei criteri di rightsizing delle posizioni. Sono le grandi lezioni che le crisi hanno insegnato.
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