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Quei test della Mifid non sempre compresi

4/15/2011 | Carlo Emilio Esini

Iconcetti di adeguatezza e appropriatezza non sono per nulla stati introdotti dalla direttiva Mifid (2004/39/CE) dato che l’art.19 ai commi 4 e 5 usa esclusivamente l’aggettivo “adatto”:


I concetti di adeguatezza e appropriatezza non sono per nulla stati introdotti dalla direttiva Mifid (2004/39/CE) dato che l’art.19 ai commi 4 e 5 usa esclusivamente l’aggettivo “adatto”: “Quando effettua consulenza in materia di investimenti o gestione di portafoglio, l’impresa di investimento ottiene le informazioni necessarie in merito alle conoscenze ed esperienze del cliente o potenziale cliente, in materia di investimenti riguardo al tipo specifico di prodotto o servizio, alla situazione finanziaria e agli obiettivi di investimento per essere in grado di raccomandare i servizi di investimento e gli strumenti finanziari adatti al cliente o al potenziale cliente.  Gli Stati membri si assicurano che, quando prestano servizi di investimento diversi da quelli di cui al paragrafo 4, le imprese di investimento chiedano al cliente o potenziale cliente di fornire informazioni in merito alle sue conoscenze e esperienze in materia di investimenti riguardo al tipo specifico di prodotto o servizio proposto o chiesto, al fine di determinare se il servizio o il prodotto in questione è adatto al cliente”. A qualsiasi lettore attento non potrà sfuggire che la Mifid si limita ad enunciare un concetto unico per entrambi gli ambiti anche se chiarisce che per i cosìddetti servizi a valore aggiunto (consulenza e gestione di portafogli) il test è una condizione per la prestazione del servizio, mentre per gli altri servizi si tratta di una valutazione doverosa, ma non vincolante. Il provvedimento cha ha dato i natali alla distinzione tra adeguatezza e appropriatezza è invece la direttiva 2006/73/CE, ovvero la direttiva di attuazione della Mifid e, in particolare, gli artt.35 e 36. A tali norme, poi diligentemente versate dalla Consob nel regolamento 16190/07 negli artt.40 e 42, si deve la creazione e la definizione di questi “parametri” che sembrano così importanti nella relazione tra intermediario e cliente. In realtà il loro rilievo come vincoli per gli intermediari dovrebbe essere molto ridimensionato.
In primo luogo la valutazione di adeguatezza o appropriatezza non è libera ma vincolata:
1) l’adeguatezza infatti si ha solo se l’operazione (a) “corrisponda agli obiettivi di investimento del cliente in questione; (b) sia di natura tale che il cliente sia finanziariamente in grado di sopportare qualsiasi rischio connesso all’investimento compatibilmente con i suoi obiettivi di investimento; (c) sia di natura tale per cui il cliente possiede le necessarie esperienze e conoscenze per comprendere i rischi inerenti all’operazione o alla gestione del suo portafoglio”. In altri termini l’intermediario deve controllare che tutte le condizioni si verifichino indipendentemente da ogni altra valutazione discrezionale; allora, ad esempio, un’operazione che emotivamente l’investitore non sia in grado di sopportare diventa adeguata in quanto il parametro di cui al punto b. è puramente finanziario.
2) Quanto all’appropriatezza essa ricorre semplicemente ove il cliente abbia “il livello di esperienze e conoscenze necessario per comprendere i rischi che il prodotto o servizio di investimento offerto o richiesto comporta.”
In altri termini se l’operazione è del tutto contraria agli obiettivi di investimento del cliente e comporta dei rischi che possono rovinarlo finanziariamente essa può comunque definirsi “appropriata” ove il cliente abbia una buona esperienza e competenza finanziaria anche se, nel caso concreto, non ha capito niente. In poche parole: l’intermediario non ha alcuna responsabilità se si attiene ai parametri indicati dalle norme. In secondo luogo la direttiva del 2006 ha snaturato la simmetria tra il comma 4 e il comma 5 dell’art.19 della Mifid: nella prima versione infatti le valutazioni erano del tutto simili, ma basate su dati diversi (più ampi per la prima).
Nel testo oggi recepito dal regolamento 16190/07 l’adeguatezza è rimasta un test sulla compatibilità tra le esigenze del cliente e l’investimento proposto, mentre l’appropriatezza è un mero test sul cliente: la norma infatti impone solo di valutare se il cliente ha l’esperienza e conoscenza sufficienti per “comprendere i rischi” connessi al tipo di investimento. A rigore, che li comprenda davvero è, giuridicamente, del tutto indifferente. Se ne può dedurre che la vendita di una unit linked, se il cliente ha già fatto in precedenza un simile investimento, potrebbe avvenire senza alcuna remora indipendentemente dal sottostante.
 
Articolo tratto dal numero di aprile di ADVISOR

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